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venerdì 25 marzo 2016

Platone tra matematica, logica e cosmogonia.


Tratto dal saggio Il Sapere degli Antichi Greci, disponibile in formato cartaceo e digitale al seguente indirizzo, anche in download gratuito.


Pur non essendo un matematico, Platone nei suoi scritti esibisce una grande padronanza delle più avanzate conoscenze matematiche dell'epoca.

All'ingresso della scuola di Platone, l'Accademia, c'era scritto «Non entri chi non è Geometra». 

E non poteva essere altrimenti, dato che egli poneva la geometria tra le discipline fondamentali per la formazione di un buon filosofo.

Conosciamo anche un celebre motto attribuito da Plutarco a Platone, che recita: «Dio geometrizza sempre».

Tutto ciò a ulteriore testimonianza della centralità di questa branca della matematica nella filosofia platonica.

Cerchiamo quindi d'illustrare il sapere e i contributi di Platone nell'ambito della logica, della matematica e della geometria, partendo però dalla descrizione della cosmogonia platonica.

Nonostante Platone ritenga il mondo sensibile inferiore e ingannevole rispetto a quello sovrasensibile delle idee, conoscibile mediante l'intelletto, non ne nega l'esistenza.

Anche se la vera scienza non si occupa della Natura, quel minimo di verità che quest'ultima manifesta dev'essere pur spiegato in qualche modo. 

Secondo Platone il massimo che si può ottenere in questo ambito è una conoscenza probabile, che egli espone ricorrendo ad un mito.

Vi è un artefice del mondo, un artigiano divino, il Demiurgo, che ha plasmato il mondo spinto dalla bontà.

Egli trasse l'ordine dal disordine, imitando il modello più buono e perfetto che ci sia: quello dell'essere.

Fece il mondo come un enorme animale, fornito di anima e d'intelligenza. La natura è viva perché è un tutto animato. 

In quanto copia generata del mondo delle idee, la natura perde l'invisibilità e l'incorporeità del modello originario e diviene corporea, quindi visibile e tangibile.

Nella sua azione il Demiurgo opera su una sorta di “materia”, un elemento primitivo distinto dagli elementi visibili (acqua, terra, fuoco e aria) che si oppone alla sua azione ma al tempo stesso la rende possibile.

Platone si riferisce ad esso con il termine di necessità (anànche) e lo descrive in modo oscuro come «una specie invisibile ed amorfa, capace di accoglier tutto, partecipe dell'intelligibile ma difficile a comprendersi».

L'intelligenza ha operato sulla necessità cercando di persuaderla, affinché ciò che era generato fosse indirizzato verso il bene, ma questa sorta di ricettacolo informe aveva opposto resistenza, impedendo al Demiurgo di realizzare una copia esatta del modello originario.

Aggregazione e disgregazione sono i segni manifesti di questa imperfezione, che rendono il mondo della natura mutevole, al contrario del mondo delle idee che è statico.

L'azione finalistica del Demiurgo è però evidente, perché il mondo sensibile non è caotico ma ordinato, sebbene sia imperfetto. 

Oltre alla necessità, vi era anche lo spazio (chora) sede di ciò che è generato e, in quanto tale, eterno.

A questo punto si possono mettere in evidenza tre grandi differenze con la divinità della tradizione cattolico-cristiana. 

Innanzitutto quella del Deminurgo non è un “creatio ex nihilo”, ovvero una creazione dal nulla, come è stata intesa nel caso di Dio, ma è molto simile all'attività di un artigiano che riorganizza del materiale già esistente e nel farlo si ispira ad un preciso modello. 

Non vi è, inoltre, nessuna identificazione tra il bene e la divinità nella cosmogonia platonica.

Il demiurgo non è causa del male, perché agisce con l'intento di diffondere e moltiplicare il bene e tanto meno egli è il bene in sé.

Per Platone il bene è causa delle idee e non delle cose naturali, e il Demiurgo è l'artefice delle cose naturali ma non del bene, né delle idee.

Queste ultime entrano a far parte nell'azione plasmatrice della divinità come criteri direttivi e limitativi, ma tali strutture sono indipendenti da essa. 

L'ultima discrepanza risiede nel carattere politeistico evidenziato da Platone nella sua cosmogonia. 

Il Demiurgo non agisce da sé, ma si avvale della partecipazione di altri dei di cui egli è una sorta di capo gerarchico.

Davvero interessante è l'idea platonica inerente l'origine e il significato del tempo. 

Il demiurgo, per rendere la sua opera più simile al modello originale, che è eterno ed immutabile, creò il tempo concependolo come «un'immagine mobile dell'eternità».

Il tempo e i cieli iniziarono ad esistere allo stesso istante, come testimoni e artefici del divenire e del movimento della natura che manifestano un andamento periodico e regolare. 

Il tempo, infatti, può essere misurato mediante l'alternanza giorno e notte, e quindi, in definitiva, grazie al moto regolare degli astri.

Il Demiurgo creò il Sole in modo che gli umani potessero imparare a contare, e da li giungessero all'aritmetica. 

L'alternanza giorno e notte che segna il passare dei giorni, dei mesi e degli anni, creò la nozione di numero e poi quella del tempo, dalle quali derivò la filosofia.

Probabilmente senza il ciclo notte e giorno gli uomini non avrebbero pensato ai numeri. L'esperienza, quindi, gli fece un gran dono: la filosofia.

Platone esclude la pluralità dei mondi, e le teorie di infiniti mondi, sostenendo che il mondo non può che essere uno e uno solo, in quanto copia destinata ad accordarsi con il modello originario.

Gli astri che vediamo in cielo sono divinità eterne. Furono create tante anime quante sono le stelle.

Il regno animale è il risultato della corruzione delle anime. All'interno di esse, infatti, risiedono delle sensazioni, quali sono ad esempio l'amore, l'odio o l'ira, che devono essere dominate.

Rinnegando l'uguaglianza tra uomo e donna, sostenuta nella Repubblica, Platone illustra una gerarchia della corruzione che regola le dinamiche della trasmigrazione delle anime. 

Al primo posto vi sono gli uomini che, se riescono a dominare le loro passioni vivendo rettamente, possono ricongiungersi con la propria stella. 

Se ciò non avviene, le loro anime sono condannate a reincarnarsi in corpi di donna; se queste insistono ancora a deviare dalla retta via, saranno ospitate nei corpi degli animali... tutto ciò andrà avanti di trasmigrazione in trasmigrazione, fin quando non riusciranno a risalire la gerarchia allontanando la loro condotta dal male.   

Quando Platone espone nel Timeo le sue idee in ambito cosmologico manifesta un chiaro carattere pitagorico, ma introduce anche una significativa novità. Cerchiamo ora di capire perché ciò avvenne e soprattutto di cosa si tratta.

I pitagorici avevano sostenuto che «tutto è numero», intendendo che i fondamenti della natura fossero di tipo aritmetico. 

Il mondo sensibile è misurabile, e queste misure possono essere messe in relazione mediante rapporti di numeri interi.

L'universo è caratterizzato da una sorta di armonia basata su precisi rapporti numerici, quelli che noi oggi chiamiamo numeri razionali. In questo senso per i pitagorici tutto è numero (razionale). 

Ma la scoperta degli “incommensurabili”, come ad esempio la diagonale di un quadrato di lato unitario, e cioè la radice quadrata di 2, che è irrazionale, mise in crisi questa concezione.

Nel Teeteto, Platone ci fornisce un'importante testimonianza storica in proposito. 

Il protagonista del dialogo, che è appunto Teeteto, dice di aver suddiviso i numeri naturali in due gruppi: quelli che possono essere espressi come potenza di 2, ad esempio 4=2^2, 9=3^2, 16=4^2 etc, che chiamò numeri quadrati, perché possono essere disposti su di un quadrato; e quelli che non hanno questa proprietà, che chiamò numeri rettangolari ad esempio 3,5,7...  

Ebbene Teeteto dichiara di aver scoperto nel corso delle sue ricerche che tutte le radici quadrate dei numeri che non sono quadrati perfetti sono irrazionali.

Quindi non è solo la radice di 2 ad essere irrazionale, ma anche la radice quadrata di 3, 5, 6, 7, 8, 10, 11 e così via per ogni altro numero naturale che non sia già un quadrato perfetto.

Prima di ciò, la conoscenza dell'irrazionalità dei numeri naturali si fermava al numero 17. Il risultato era dovuto al matematico Teodoro di Cirene che, come si apprende dal Teeteto, fu insegnante di matematica sia di Platone che dello stesso Teeteto.

Nel dialogo si ricorda come Teodoro avesse dimostrato che le radici dei numeri interi compresi fra 3 e 17, esclusi ovviamente 4, 9 e 16, fossero irrazionali. 

Egli introdusse anche un metodo ricorsivo per costruire geometricamente la radice quadrata di un qualsiasi numero naturale basato sulla costruzione di una spirale nota come spirale di Teodoro.
Il procedimento per costruirla è molto semplice. Per prima cosa, (1) si costruisce un quadrato ABCD di lato unitario. (2) si traccia la diagonale del quadrato, che è lunga per l'appunto radice di 2. (3) si traccia un segmento unitario in modo che sia perpendicolare all'ipotenusa appena tracciata  così da costruire un nuovo triangolo rettangolo (in figura ED = 1). Applicando il Teorema di Pitagora si scopre che la nuova diagonale BE ha una lunghezza pari alla radice quadrata di: 2 alla seconda (che fa 2) più 1 al quadrato (che fa 1), ovvero pari alla radice quadrata di 3 (in figura BE= radice di 3). 

A questo punto il procedimento dovrebbe esser chiaro: è sufficiente tracciare un nuovo lato unitario perpendicolare all'ipotenusa appena trovata per costruire un nuovo triangolo rettangolo che avrà ipotenusa pari alla radice di 4, e così via...

Sebbene il metodo di Teodoro in linea teorica possa essere utilizzato per disegnare la radice quadrata di un qualsiasi numero esistente, dal punto di vista pratico ad un certo punto diviene inutilizzabile, perché la spirale inizia ad avvolgersi su se stessa, e così bisognerebbe disegnare sopra ciò che si è già disegnato, pasticciando il tutto.

E ciò accade proprio alla costruzione della radice di 18. Forse fu proprio a causa di un simile motivo che Teodoro si limitò a provare l'irrazionalità dei numeri soltanto fino al 17.


Viste le criticità dovute all'irrazionalità dei numeri non quadrati, gli antichi greci pensarono di poter fondare la matematica sulla geometria.

Chi più di ogni altro pose l'attenzione sulla geometria è senza alcuna ombra di dubbio Euclide con i suoi Elementi, ma questa tendenza può essere già riscontrata nei filosofi che lo precedettero. 

In particolare, Platone fu il primo a sostenere la teoria secondo la quale i costituenti ultimi della materia hanno una struttura di tipo geometrico.

I veri costituenti del mondo sensibile, non sono i quattro elementi, terra, aria, acqua e fuoco, ma due specie di triangoli rettangoli particolari, l'uno ottenuto dalla metà di un quadrato, e l'altro dividendo a metà un triangolo equilatero.

L'importanza di questi due triangoli apparirà più chiara al lettore tra poco, per il momento possiamo anticipare che possono essere impiegati per costruire 4 dei 5 solidi regolari a cui Platone attribuì un ruolo davvero notevole. 

Ed è proprio Platone a parlarci di questi 5 solidi particolari, che sono oggetti tridimensionali aventi per facce dei poliedri regolari tutti congruenti tra loro. Anche per questo furono definiti solidi Platonici.


Il primo, e forse il più intuitivo di essi, è la piramide a base triangolare, detta tetraedro, perché formata da 4 facce triangolari.

Il secondo, probabilmente il più noto e comune, è il cubo, formato da 6 facce quadrate.

Il terzo può essere ottenuto attaccando insieme (per le basi) due piramidi a base quadrata, ottenendo così un solido avente 8 facce triangolari, noto, per l'appunto, come ottaedro.

Il quarto, un po' più complesso e meno noto, si chiama dodecaedro ed è composto da 12 facce pentagonali.

Il quinto, ancora più complesso e spettacolare, è l'icosaedro che si ottiene componendo 20 facce triangolari.

Si potrebbe pensare che questo processo possa andare avanti, e che esistano altri solidi oltre a quelli elencati da Platone. 

La risposta però è negativa, e la dimostrazione può essere trovata proprio all'interno di uno dei suoi celebri dialoghi intitolato Teeteto, nel quale Platone enuncia il risultato noto con il nome di Teorema di Teeteto, provando che i solidi regolari sono esattamente 5. 

La dimostrazione, a dispetto del notevole risultato, è davvero semplice e intuitiva.

Immaginando di chiudere un solido ipotetico avente soltanto 2 facce che confluiscono nei vertici, ben presto ci accorgeremmo che è impossibile farlo (per semplicità, si pensi di ottenere un solido piegando una sola volta un foglio di carta). 

Quindi, la prima cosa da notare è che se vogliamo costruire un solido almeno 3 facce devono convergere nei vertici, perché se così non fosse il solido non si chiuderebbe.

La seconda osservazione riguarda la somma degli angoli che convergono in un singolo vertice. 

È chiaro che questa somma debba essere inferiore ad un angolo giro, altrimenti la figura si appiattirebbe e, ancora una volta, non si riuscirebbe a chiudere il solido.

Tenendo a mente questi due punti, chiediamoci: che figure si posso utilizzare per creare un solido regolare? 

L'esagono regolare presenta degli angoli che sono pari ad 1/3 dell'angolo giro, quindi per la seconda osservazione è da scartare, perché 120° x 3 è già uguale a 360° e così il solido si appiattirebbe. 

Ma se l'esagono regolare non è adatto a maggior ragione non lo saranno i poligoni regolari con un numero di lati ancora più grande, perché essi hanno degli angoli ancora maggiori.

Ciò limita le scelte della forma delle facce a triangoli, quadrati e pentagoni.

Perché vi sono solo cinque solidi regolari? Per comprenderlo è sufficiente analizzare caso per caso le possibili composizioni delle facce ammesse.

I triangoli regolari hanno angoli pari ad 1/6 di angolo giro, ovvero 60°, quindi in un vertice se ne possono far incontrare 3, 4 e 5, ma non 6, perché 3 x 60° < 4 x 60° < 5 x 60° < 360° mentre 6 x 60° = 360°, che è da escludere per l'osservazione numero 2.

Queste considerazioni spiegano rispettivamente l'esistenza del tetraedro, dell'ottaedro e dell'icosaedro regolari. 

Ora, in modo analogo, i quadrati hanno angoli pari a 1/4 di angolo giro, quindi se ne possono mettere insieme 3 ma non 4, perché altrimenti si avrebbe 90° x 4 = 360° ovvero l'angolo giro. Ciò spiega il cubo. 

Infine, i pentagoni hanno angoli compresi tra 1/4 e 1/3 di angolo giro, precisamente di 108°, quindi se ne possono unire 3 ma non 4, perché 108° x 4 = 432° che è maggiore di 360°. Ciò spiega il dodecaedro e conclude l'argomento.

Ebbene, nella cosmologia di Platone, i quattro elementi noti agli antichi greci vengono associati ai solidi regolari secondo una precisa corrispondenza: il tetraedro al fuoco (piramide deriva da pyr che significa fuoco), il cubo alla terra, l'ottaedro all'aria e l'icosaedro all'acqua.

Insieme ad essi vi è anche il dodecaedro che recita un ruolo particolare, sebbene la sua parte non sia del tutto chiara leggendo i passi in cui viene descritta. 

A causa delle sue facce pentagonali, il dodecaedro non può essere costruito con quei triangoli elementari che Platone sceglie come veri costituenti degli elementi; tuttavia egli lo include come quinta combinazione utilizzata dalla divinità per la creazione del mondo.

È bene ricordare che il pentagono aveva una grande importanza presso i pitagorici, ed è probabile che stesse a simboleggiare l'universo, sebbene in altri passi Platone individui la forma dell'universo nella sfera, in virtù della sua perfezione. 

Al netto di ciò, l'idea centrale è davvero potente: gli atomi che costituiscono i 4 elementi hanno una forma geometrica determinata e possono combinarsi tra loro.

Davvero interessante è un passo portato all'attenzione dal celebre fisico Werner Einsenberg (uno dei padri della meccanica quantistica) nel saggio Fisica e filosofia, in cui Platone sostiene che: «è ammissibile che l'acqua diventi, per scomposizione, un corpo di fuoco e due d'aria».

Il parallelismo con il moderno processo di sintesi dell'acqua (H2O), ottenuta a partire da due atomi di idrogeno H e uno di ossigeno O è davvero sconcertante, ma ciò che ispirò Platone probabilmente fu una considerazione di natura prettamente geometrica.

Infatti scomponendo in triangoli due ottaedri, che simboleggiano l'aria, e un tetraedro, che rappresenta il fuoco, si ottengono esattamente 8+8+4=20 triangoli che possono essere ricombinati andando a formare un icosaedro che per Platone rappresentava l'acqua.

L'idea che le molecole si possano combinare e scombinare mediante processi di sintesi e retrosintesi che sottostanno a rigorose leggi matematiche, è posta a fondamento della chimica moderna, di cui Platone, forse per un caso fortuito, ne diviene una sorta di lungimirante precursore.

Ma le strutture delle molecole si sono rivelate decisamente più complesse di quelle che Platone si era immaginato.

Alcuni chimici, però, si sono domandati se in natura esistessero davvero molecole aventi la forma di solidi Platonici o, al limite, se si fossero potute costruire in laboratorio.

Nel 1931 Linus Pauling, avvalendosi della meccanica quantistica, mostrò che il carbonio dispone spontaneamente i suoi 4 legami in modo da formare una struttura a forma di tetraedro. 

Ad esempio, nel metano (CH4) gli atomi di idrogeno si dispongono sui vertici di un tetraedro e sono collegati ad un atomo di carbonio che, invece, assume una posizione centrale. Anche nel fosforo bianco (P4) gli atomi di fosforo occupano i vertici di un tetraedro.

L'esafluoruro di zolfo (SF6) è un gas serra che rappresenta un ottimo esempio di disposizione a forma di ottaedro, con i suoi 6 atomi di fluoro che ne occupano i vertici e l'atomo di zolfo posto al centro. 

Tra gli idrocarburi si trovano il tetraedrano (C4H4), il cubano (C8H8) e il dodecaedro (C20H20) che, come suggeriscono i nomi, rappresentano esempi di molecole aventi gli atomi di carbonio rispettivamente disposti ai vertici di un tetraedro, un cubo e un dodecaedro, con un atomo di idrogeno “penzolante” da ciascuno di essi.

A differenza del tetraedrano, che non è ancora stato sintetizzato, il cubano è stato ottenuto da Philip Eaton nel 1964 e il dodecaedrano nel 1982 da Leo Paquette.

Togliendo dal dodecaedrano i rispettivi atomi di idrogeno, Horst Prinzbach ha ottenuto nel 2000 il più piccolo esempio di fullerene con un dodecaedro di carbonio (C20).

Passando dal micro al macro, nella cristallografia si possono ritrovare disposizioni a forma di tetraedro, di cubo e di ottaedro, ma non vi sono esempi di simmetrie pentagonali.

Ad esempio, la pirite si cristallizza in cubi e ottaedri, ma non in dodecaedri regolari. Vi sono invece  dodecaedri irregolari, come il pirometro.

Chiudendo questa piccola parentesi nel mondo della chimica, cerchiamo ora d'illustrare, brevemente, gli altri contributi apportati da Platone al campo della matematica e della logica. 

Il lettore ricorderà il dialogo contenuto nel Menone avvenuto tra Socrate e uno schiavo, nel quale il filosofo d'Atene riesce a far “ricordare” al suo interlocutore, completamente estraneo alla geometria, un caso particolare del teorema di Pitagora (si veda qui).

Più precisamente ciò che lo schiavo riuscì a fare, grazie alle direttive di Socrate camuffate da domande, è di confermare la soluzione del problema del raddoppio dell'area di un quadrato.

La risposta diviene evidente non appena si costruisce un quadrato sull'ipotenusa del triangolo ottenuto tracciando una delle due diagonali del quadrato di partenza. 

In altre parole, il quadrato che raddoppia l'area del primo, ha i lati lunghi come la diagonale del quadrato dato inizialmente.

Ebbene, l'importanza storica del risultato contenuto nel Menone è dovuta al fatto che esso rappresenta una delle prime testimonianze, se non la prima, a noi note, di una vera e propria dimostrazione matematica.

L'idea che bisognasse dimostrare i risultati probabilmente risale ai tempi di Talete, di cui però le rispettive dimostrazioni sono andate perse.

Prima di Talete i risultati matematici venivano divinati o forse, più verosimilmente, indovinati se non astratti dall'esperienza. Comunque sia, sembra che non si sentisse la necessità di provarli formalmente.

Il perché è difficile a dirsi, magari apparivano evidenti di per sé, o forse non era il caso di mettere in discussione ciò che si credeva suggerito da una qualche divinità.

Ad esempio, gli egizi possedevano delle formule per calcolare l'area di un quadrilatero e per trovare il volume di un tronco di piramide, ma restituivano un risultato corretto solo nel secondo caso; i babilonesi, invece, conoscevano il Teorema di Pitagora ma credevano che il rapporto tra la circonferenza ed il diametro di un cerchio fosse uguale a 3. 

Di certo, nessuno di questi popoli possedeva un metodo per stabilire se i risultati in loro possesso fossero effettivamente veri o falsi.

Vi è poi una curiosità a proposito del numero 5040 che Platone aveva utilizzato anche nella sua utopia definendolo come il miglior numero di abitanti per la sua città. Come mai proprio 5040?

Chi ha un po' di dimestichezza con la matematica non può non accorgersi che in realtà quel numero è ottenuto come prodotto dei primi 7 numeri naturali, ovvero 1 x 2 x 3 x 4 x 5 x 6 x 7 = 5040, un prodotto che i matematici chiamano sinteticamente “fattoriale” di 7 e indicano con un punto esclamativo (7!). 

Il tutto si può generalizzare al caso n-esimo definendo n!, ovvero n fattoriale, come il prodotto dei primi n numeri naturali (il numero 1 si può chiaramente escludere senza perdere di generalità).

Se ci mettessimo a contarli, ci accorgeremmo che 5040 è un buon numero da utilizzare per fini pratici perché vanta ben 59 divisori, escludendo se stesso, tra i quali i numeri naturali da 1 a 10. 

Un modo più furbo per individuare i divisori, e il loro numero, consiste nel riscrivere 7! = 1 x 2 x 3 x 4 x 5 x 6 x 7 come 1 x 2 x 3 x (2 x 2) x 5 x (3 x 2) x 7 = 2 x 2 x 2 x 2 x 3 x 3 x 5 x 6 = 2^4 x 3^2 x 5 x 7 e nel considerare questi ultimi numeri e moltiplicarli tra loro per tutte le rispettive potenze. 

Avremo quindi 5 modi di moltiplicare il primo fattore, cioè 2^0=1, 2^1=2, 2^2=4, 2^3=8, 2^4=16; 3 modi di moltiplicare il secondo 3^0=1, 3^1=3, 3^2=9; due modi per il terzo e il quarto 5^0=1, 5^1=5 e 7^0=1, 7^1=7.

Ciò significa che si avranno 5 x 3 x 2 x 2 = 60 divisori dai quali, escludendo 5040, si ottiene esattamente 59, che è la soluzione cercata.

A causa dell'alto numero di divisori, il numero 5040 viene tirato in ballo in un altro noto dialogo platonico, le Leggi, per risolvere delle questioni riguardi un'equa suddivisione delle terre tra i cittadini.

Al netto delle testimonianze storiche, e delle curiosità, Platone contribuì a gettare le fondamenta della logica, la cui nascita come disciplina avvenne successivamente per opera di Aristotele, suo discepolo presso l'Accademia.    

In questo ambito a Platone si devono attribuire la corretta interpretazione della negazione e l'introduzione del principio di non contraddizione.

A differenza di Parmenide, Platone comprese che la negazione non doveva essere intesa in senso assoluto ma relativo.

Agli occhi di Parmenide il non-essere era contraddittorio: «il non-essere non è, e non può essere», altrimenti esisterebbe e invece non esiste. Questo era il suo modo di ragionare. 

Egli intendeva il non-essere sempre contrapposto all'essere, non-essere significava solo non esistere, ma ciò è errato.

Una rosa può essere rossa, ma il fatto che non sia rossa non significa che non esista in senso assoluto, perché può darsi che esista e sia semplicemente di un altro colore.

Platone concepì il non-essere non più staticamente e assolutamente contrapposto all'essere ma "diverso" dall'essere, ovvero in senso relativo.

Si tratta di dire delle cose che sono qualche cosa, che hanno certe proprietà o che non hanno quelle proprietà, e non che sono o non-sono.

Platone sostenne anche che data una certa proposizione A, non può essere che sia A che la sua negazione non-A siano entrambe vere allo stesso modo e nel medesimo istante. 

Ad esempio, non si può affermare allo stesso tempo che il numero 2 è sia più grande che più piccolo del numero 4.

Quanto appena affermato è noto come "principio di non contraddizione" ed è posto alla base della logica classica: senza di esso l'intero impianto crollerebbe.

Violare il principio di non contraddizione, affermando la verità di tutto e del contrario di tutto, è una prassi del ragionamento sofistico adottata ancora oggi da chi intende manipolare le masse, ma che per fortuna non conduce lontano, perché il sofista può essere smascherato proprio mediante quella logica che egli rinnega.  

Anche la definizione di verità, la cui paternità è solitamente attribuita ad Aristotele, in realtà è stata anticipata da Platone nei suoi dialoghi. 

Egli intende il vero come il «dire di ciò che è che è, e di ciò che non è che non è», e in modo duale il falso come il «dire di ciò che è che non è, e di ciò che non è che è».

Nonostante ciò, Platone commise degli errori in ambito logico, ed uno in particolare è presente in modo sistematico. 

Dal fatto che A implica B non si può dedurre che non-A implichi non-B, ciò che si può fare, per contrapposizione, è affermare che non-B implica non-A.

Ad esempio, quando bevo il latte ho una reazione allergica quindi se non ho una reazione allergica di certo non ho bevuto il latte, ma non è detto che se non bevo il latte io non possa avere lo stesso una reazione allergica, perché magari ho inavvertitamente mangiato del formaggio.

Platone invece, in numerosi passi, commette questo non sequitor logico, sostenendo ad esempio che se l'anima temperante è buona, allora l'anima non temperante è cattiva, mentre ciò che avrebbe potuto dedurre è che l'anima cattiva non è temperante. 

D'altro canto egli cominciò a isolare la struttura linguistica, compiendo un'analisi logica che iniziava a distinguere soggetto e predicato, senso e significato, nome e cose.

Comprese anche la differenza che corre tra le cose del mondo sensibile e le parole utilizzate nel linguaggio.

Ma la sua intuizione più grande fu quella che gli permise di dare una risposta al seguente quesito: qual è la vera natura degli oggetti matematici?

La risposta di Platone diede vita ad una nuova concezione filosofica destinata a riscuotere un grande successo nei secoli a venire, nota come Dottrina delle Idee. (si veda qui) 

I veri oggetti della matematica non sono quelle forme che, per quanto i matematici si sforzino di disegnare precisamente, risultano sempre imprecise e imperfette.

I veri oggetti della matematica sono le idealizzazioni di quei disegni imperfetti, che invece hanno una forma perfetta e in virtù di questa perfezione, che le loro rappresentazioni non possono avere, acquisiscono un'esistenza indipendente e popolano un mondo sovrasensibile, parallelo a quello sensoriale ma superiore ad esso in quanto a bellezza e perfezione, il mondo delle idee chiamato Iperuranio. 

Un mondo conoscibile dalla ragione, che esiste a prescindere dall'esperienza e risiede al di là del mondo sensibile, che oggi potremmo identificare con il mondo della matematica.

Mirco Mariucci

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